Educazione emotiva a scuola: perché introdurla in classe. Gli attivatori delle emozioni

Studi e ricerche confermano che esiste una triangolazione perfetta tra i processi di apprendimento, il mondo emozionale e il successo o l’insuccesso scolastico. Ma come introdurre l’educazione alle emozioni in classe? Proponiamo diversi strumenti semplici da utilizzare e ben accolti dagli studenti

Emozioni e sentimenti sono molto importanti per noi esseri umani. Non potremmo mai farne a meno. Anche se non ce ne rendiamo conto, ci fanno costantemente compagnia. Arricchiscono o impoveriscono le nostre giornate; nutrono pensieri, ragionamenti, giudizi e pregiudizi; ed intervengono nelle nostre scelte. In altri termini, governano il gran ballo, pieno di incertezze e meraviglia, delle nostre vite.

Sebbene continuino a serbare quella loro aura misteriosa e sfuggente, il grande sviluppo che hanno conosciuto le neuroscienze, specie negli ultimi decenni, ci consente oggi di aggiungere dei preziosi tasselli al puzzle della loro conoscenza. In effetti, siamo ormai in grado di osservare un po’ più da vicino il nostro cervello e alcuni dei principali meccanismi che sono alla base del suo funzionamento. Tra le acquisizioni più preziose, vi sono pure quelle che riguardano lo specifico ambito dell’istruzione.

Le nuove frontiere delle neuroscienze: emozioni e apprendimento. Studi e ricerche confermano, infatti, che esiste una triangolazione perfetta tra i processi di apprendimento, il mondo emozionale e il successo o l’insuccesso scolastico. È ormai un dato acquisito che, l’interesse e soprattutto il coinvolgimento emotivo, svolgano un ruolo centrale nei processi vitali, quali la comprensione, l’attenzione e la memoria. Non a caso, Maryanne Wolf, una delle più autorevoli neuroscienziate del panorama mondiale, ha potuto asserire che «la qualità del nostro pensiero dipende dalle conoscenze di base e dalle emozioni che ciascuno di noi mette in gioco.». L’apprendimento, insomma, è legato a doppio filo ai nostri stati d’animo, ai nostri più o meno ineffabili umori.

Perché l’educazione emozionale dei ragazzi a scuola. Il rischio che rimangano travolti dalla tempesta. Questa consapevolezza ha un’importante ricaduta al livello didattico. La scuola è chiamata a un coinvolgimento diretto nell’ educazione emozionale dei ragazzi. Considerato il ruolo che occupano nella nostra esistenza, non può più sottrarsi all’impegno di insegnargli a:

–  riconoscere emozioni e sentimenti;

–  saperli esprimere;

–  prendersene cura.  

D’altronde, come ci avverte il filosofo Umberto Galimberti, che da anni si interroga su questi argomenti, il rischio che si corre è quello lasciare gli allievi in balia del loro mondo interiore. Ciò li espone a un grave pericolo, quello di essere travolti da un fiume in piena e di essere trascinati, «a loro insaputa, in luoghi dove […] più non si riconoscono, o peggio ancora, dove si riconoscono senza essere stati loro a dirigere il proprio cammino e tanto meno ad aver scelto la meta a cui sono giunti.». (Che tempesta! p. 7)

Emozioni e sentimenti, che cosa sono? Due parole, due mondi. Ma esattamente che cosa sono le emozioni e i sentimenti? Spesso tendiamo a sovrapporre idue vocaboli come fossero dei sinonimi. Nulla di più sbagliato.

Le emozioni sono guidate dagli eventi e hanno sede nel cervello antico, il centro di elaborazione emotiva delle creature umane. Ci accompagnano e sostengono, infatti, sin dalla notte dei tempi. Sono una risposta istintiva, temporanea e immediata -ma proprio per questo anche imperfetta- che il nostro sistema nervoso fornisce a degli stimoli precisi. Stimoli che possono essere sia interni, quali un pensiero, un’ossessione; un’idea; sia esterni, come ad esempio un tamponamento, un rimprovero, una lode. Contrariamente a quanto si sapeva sino a qualche tempo fa, esse non innescano soltanto delle reazioni fisiologiche, viscerali, psicologiche, ma pure delle risposte di tipo cognitivo.

I sentimenti, invece, sono dei comportamenti culturali e in quanto tali vengono modellati dal temperamento e dall’esperienza personale. Non sono ereditari, ma si apprendono. Coinvolgono soprattutto la neocorteccia celebrale e sono delle associazioni mentali e delle reazioni attivate proprio dalle emozioni. Al contrario di queste ultime, sono duraturi e per svilupparsi richiedono un lavoro di analisi, ragionamento, riflessione. Sarebbe dunque improprio ridurli a un” semplice sentire”. Piuttosto, ne dobbiamo parlare come delle facoltà cognitive.

Semplificando, possiamo dire che, se lo scopo delle emozioni è quello di spingerci ad agire, ai sentimenti tocca invece il compito di suggerirci come vivere. Naturalmente, esistono l’una in relazione dell’altro. A voler provare a racchiudere l’ineffabile e darvi un nome, potremmo ricordare che:

– il desiderio è un’emozione, l’amore un sentimento;

– la delusione è un’emozione, l’amicizia un sentimento.

 

Quante emozioni? L’approssimazione dei numeri. In psicologia, si parla di sei emozioni base: paura, rabbia, disgusto, tristezza, sorpresa e gioia. Il volto umano, tuttavia, è in grado di ricreare più di 7mila espressioni diverse, che riflettono la grande varietà della nostra tavolozza emozionale. Racchiudere le emozioni entro una perfetta contabilità di numeri è impossibile. Sono numerosissime; e non tutte ancora sono stare pienamente esplorate.

Nell’arco di una stessa giornata, se ne possono provare parecchie e anche molto diverse tra di loro. Alcune, possiedono la stessa intangibile consistenza di un fiocco di neve. Danzano appena per qualche istante nel cielo delle nostre vite. Ci scivolano addosso con sbadata gentilezza. Quasi non si fanno notare. Pensiamo, ad esempio, alla gratitudine, che germoglia a dentro di noi quando, dopo un’estenuante giornata di lavoro, siamo accolti con sollecitudine e premura tra le mura di casa. O richiamiamo alla mente la piacevole sensazione che ci può regalare un’alba maestosa. Altre invece, ci tolgono respiro e sonno, come la rabbia che ci invade quando subiamo un torto o pensiamo di subirlo. Oppure, come il rimorso, che avvelena le falde acquifere del nostro animo.

Ci sono, tuttavia, dei casi in cui neppure ci rendiamo conto di cosa ci stia succedendo. Di cosa stiamo provando realmente. E, sebbene non sia né facile, né semplice ammetterlo, proprio questa ignoranza, questo analfabetismo emozionale può spingerci a commettere sbagli ed errori piuttosto gravi.

Ogni emozione è un postino amico che ci consegna un messaggio per capire la vita

Come ci suggerisce lo psicopedagogista Stefano Rossi, se davvero desideriamo insegnare ai nostri allievi il linguaggio delle emozioni, il primo passaggio non risiede nell’aiutarli a dare un nome a tutto ciò che accade nel continente semisommerso della loro nostra interiorità – sarebbe, tra l’altro, un ‘impresa titanica. Un buon educatore gli insegnerà, per prima cosa, a smontare un mito falso e pericoloso. Non esistono emozioni giuste o sbagliate; buone o cattive. Al contrario, «ogni emozione è un postino amico che ci consegna un messaggio prezioso per leggere e comprendere la vita.» (Carezze di empatia, p.32).

Quando siamo sopraffatti da stati d’animo cupi ed inquieti, infatti, dovremmo fermarci e provare a chiederci quale pensiero dannoso vi sia dietro. Da cosa siano scaturiti. Non è raro che la risposta – talvolta piuttosto sorprendente – non ci aiuti a stare subito meglio. Bisogna imparare ad accettare senza remore e turbamenti anche le emozioni che sembrano cattive. A prendere le distanze dal protagonista de Il ritratto di Dorian Gray, a cui Oscar Wilde faceva esclamare: «E quanto sono piacevoli le emozioni degli altri! Molto più piacevoli delle idee altrui».

Percorsi di intelligenza emotiva a scuola. Torniamo però al punto di partenza di questo articolo, all’indagine sullo stretto rapporto che intercorre tra le emozioni e il successo scolastico.

Se ci soffermiamo sulle biografie di alcuni protagonisti della cultura contemporanea, ci renderemo conto che vi è un filo rosso che attraversa le loro esistenze. Per un certo periodo, infatti, sono stati dei pessimi studenti. Hanno accumulato insufficienze su insufficienze, sono stati rimandati; nei casi, estremi sono stati bocciati.

Eppure, quando tutto sembrava perduto, c’è stata una svolta, una sorta di miracolosa epifania: l’incontro luminoso (e numinoso) con un docente che ha cambiato le loro vite e ribaltato il loro rendimento scolastico. Al di là delle diverse situazioni vissute, tutti concordano su un punto. Questo prof era appassionato, colto e, soprattutto, empatico. Si premurava di ascoltare sempre ciascun allievo nella sua verità. E, nei percorsi didattici messi a punto per il gruppo-classe, così come nella scelta degli strumenti e delle metodologie che avrebbe utilizzato, l’intelligenza emotiva aveva un ruolo centrale.

D’altra parte, Daniel Goleman ci aveva avvertito in tempi non sospetti: «Il modo in cui l’insegnante gestisce la classe […] è per sé stesso un modello, una lezione di fatto, di competenza emozionale o della sua mancanza». (Intelligenza emotiva, p.  322-323)

 “Idioti” di successo: diari di scuola. Lo psicoterapeuta Massimo Recalcati annota, ad esempio che da bambino era stato considerato un «idiota» e «giudicato incapace di apprendere.» (L’ora di lezione, p.129). Sulla stessa falsariga si muove Daniel Pennac, l’autore cult della saga dei Malaussène e di tanti altri romanzi di successo – bellissimo, ad esempio, il suo L’occhio del lupo, indirizzato proprio ai giovani lettori.

Lo scrittore italo francese si è spesso soffermato sui suoi trascorsi di studente-somaro. «Andavo male a scuola» ricorda, «ogni sera della mia infanzia tornavo a casa perseguitato dalla scuola. I miei voti sul diario dicevano la riprovazione dei miei maestri. Quando non ero l’ultimo della classe, ero il penultimo.» (Diario di scuola, p.15).

Non è andata meglio ad Aidan Chambers o a Silvia Ferrara. Insegnante, critico letterario, pluripremiato autore di letteratura Young adult, Chambers, fino all’età di nove anni non era «in grado di leggere fluentemente.» (Siamo quello che leggiamo, p.33). Uno stesso sentimento di frustrazione affiora nelle parole della Ferrara, oggi professore ordinario di Civiltà egee all’Università di Bologna e a capo di uno più importanti progetti di ricerca dedicati alla scoperta e conoscenza delle lingue antiche. La studiosa, sino alla quinta elementare, sa «appena leggere. Sono in ritardo sui tempi normali: imparare a scrivere è stata un’impresa lunga e centellinata.» (La grande invenzione.p.13)

Il “buon maestro”. Anticorpi ed errori di strategia. Un buon maestro non è mai un supereroe in incognito, ma parafrasando Winnicott, semplicemente un maestro “sufficientemente buono”, che si impegna cioè a fare il massimo per i propri allievi.

Le storie di resurrezione scolastica in cui imbattuti dimostrano che la scuola possiede degli anticorpi adeguati. Le volte in cui, malauguratamente, si sono verificati degli errori nella valutazione o nelle strategie educativo-didattiche attuate, ha saputo correggersi ed autorisanarsi. Ci fanno, però, comprendere pure che il problema dell’insuccesso scolastico preluda a un fallimento che va ben oltre la vita dei singoli individui.

Infatti, non avremmo forse perso tutti quanti un po’ qualcosa se anche una sola di queste persone non fosse stata messa nelle condizioni di esprimere al meglio sé stessa? Se non avesse potuto manifestare la ricchezza del proprio pensiero?

«Io Dante non lo capivo». La verità è che dietro le ferite o i traumi che segnano uno studente mediocre, dietro la (non) scelta dell’abbandono scolastico, si palesano le inquietudini di una società che investe troppo poco nell’istruzione. E che proprio a causa di ciò si condanna a non guardare con serenità al futuro.

Per questo, mi sembra utile ricordare un’infelice passaggio a vuoto nell’esperienza scolastica di quello straordinario intellettuale che fu Giuseppe Pontiggia. Saggista, classicista, critico e narratore, ha vinto lo Strega con il romanzo La grande sera. Ma è anche l’autore di Nati due volte, una sorta di memoir, che dovrebbe entrare in diritto in ogni biblioteca di classe ed in cui, con una prosa di limpida bellezza, tratta con dolce e feroce struggimento il tema della disabilità.

Ebbene, Pontiggia parla esplicitamente del rapporto tra emozioni ed apprendimento e lo fa con una punta di tristezza.  «Si capisce qualcosa» avrebbe chiosato molti anni dopo la maturità, «quando ci emoziona molto. Dante io l’ho studiato al liceo e non mi emozionava, non lo capivo; […] Dopo aver letto [un saggio di] Eliot, Dante è diventato un autore straordinariamente carico di vitalità, di potenza, di emozione» (I classici in prima persona, p. 17)

Un principio didattico irrinunciabile. Le piccole certezze che ci portano in dono le neuroscienze e il sottotesto che è possibile ricavare dalle testimonianze e dalle riflessioni in cui ci siamo imbattuti sino a qui, ci permettono di ricavare un principio didattico irrinunciabile. Impariamo davvero qualcosa quando siamo coinvolti emotivamente. Ci rimane impresso soltanto quello che ci coinvolge intimamente. Ciò che ci suscita passione e che, proprio in virtù di ciò, sentiamo affine o, meglio ancora, familiare.

Questa minuscola verità non dovrebbe sorprenderci più di tanto. Se ne trova un accenno persino in uno dei testi fondativi della nostra civiltà, la Retorica aristotelica. Nel Libro II, (1378 a.)  possiamo leggere infatti che «Le emozioni hanno relazione con l’apparato cognitivo perché si lasciano modificare dalla persuasione.»

Atlanti, mappe e guide. Alla ricerca di un continente sommerso. A metà degli anni ‘90 del secolo scorso, Daniel Goleman aveva ottenuto un enorme successo con Intelligenza emotiva. Si era trattato tuttavia di un caso isolato.

Per fortuna, adesso, le cose sono cambiate. L’importanza che oggi riserviamo all’alfabetizzazione emozionale è testimoniata anche dalla presenza sempre più massiccia, tra gli scaffali delle librerie, di opere che si occupano di tale argomento. Il mercato editoriale non si è fatto trovare impreparato. Dai silent book agli albi illustrati ai saggi più o meno divulgativi, si cerca di andare incontro alle esigenze più disparate. I lettori possono essere certi che troveranno, tra i tanti testi messi disposizione, le mappe a loro più congeniali per il lungo viaggio che desiderano intraprendere.

Tra le opere più meritevoli degli ultimi anni, va citato l’Atlante delle emozioni umane di Tiffany Watt Smith. Storica culturale, appassionata di filosofia e di neuroscienze, la studiosa ha dato alle stampe un atlante, pensato in verità più come un agevole vocabolario, che ci consente di muoverci con agio tra «156 emozioni che hai provato, che non sai di aver provato, che non proverai mai», come recita il sottotitolo scaltro e ammiccante del suo bel bestseller.

In Italia, ricordiamo il più recente di Galimberti, Il libro delle emozioni. «Una guida», si legge nella Quarta di copertina, che potrebbe risultare utile ad «esplorare una terra in gran parte sconosciuta». Sempre nel 2021, comunque, il filosofo ha invece firmato assieme alla Vivarelli un testo molto adatto alle aule scolastiche. Il titolo è già di per sé esplicito: 50 emozioni raccontate ai ragazzi. Tra i pregi di quest’opera, vi è pure il tentativo, ben riuscito, di parlare ai ragazzi con leggerezza a e profondità di vecchie e nuove paure.

Di quale paura hai paura? In effetti, il tema della paura dovrebbe occupare uno spazio tutto suo all’interno dell’Educazione emozionale. Considerata dagli studiosi l’emozione principe del genere umano, ha assicurato la nostra sopravvivenza nel corso dell’accidentato cammino evolutivo.  Costituisce, tra l’altro, la prima risposta adattiva al nostro ingresso nel mondo – è il pianto irrefrenabile che sgorga quando abbandoniamo il ventre materno e le acque tiepide del liquido amniotico. La Watt Smitt ne parla come una sorta di «salvavita primitivo» (Atlante, p. 222).

I tempi nuovi, e la rivoluzione digitale in cui si specchiano, generano tuttavia paure, sindrome e patologie, i cui abissi vanno ancora in gran parte esplorati. Al di là di un evidente rapporto di causa-effetto che la riconduce alla presenza massiva della Rete nelle nostre vite, sappiamo, ad esempio, ben poco della FOMO. Bene ha fatto, per sensibilizzare l’opinione pubblica, Victoria De Angelis, dei Maneskin che, in un’intervista radiofonica di qualche giorno fa, ha confessato di soffrirne.

La parola è l’acronimo dell’espressione inglese fear of missing out ed indica la paura di essere tagliati fuori, di essere estromessi. Il timore (se non il terrore) di essere esclusi, in primis, dalla socialità digitale, ma in generale anche da eventi, esperienze o contesti considerati imperdibili. A questa nevrosi nuova di zecca, si lega ad un altro timore irrazionale, la paura di rimanere sconnessi, per cui è stato coniato il neologismo Nomofobia. Anche in questo caso si tratta di un acronimo: No Mobile Phone Phobia.

Il terrore della batteria scarica o di non avere campo, così come la falsa percezione di sentirsi un passo indietro, rispetto alla vita meravigliosa, piena e gratificante, degli altri può scatenare malesseri piuttosto gravi.

Venti minuti di noia. Porsi in ascolto della propria voce interiore. Dagli studi già in nostro possesso, risulta chiara la correlazione, nelle giovani generazioni, tra l’aumento esponenziale dei disturbi dello spettro ansioso e un uso inappropriato dei device digitali o un iper-utilizzo dello smartphone. Anche in questo l’alfabetizzazione emozionale può giocare un ruolo importante.

I nostri allievi soffrono per la difficoltà di risintonizzarsi con i propri ritmi circadiani (con sempre maggiore frequenza, invertono il giorno con la notte) e di riconciliarsi con il proprio corpo – «il medium digitale ci priva della […] corporeità», avverte Byung-Chul Han (Nello sciame, p. 137). Considerano quasi impossibile abitare uno spazio-tempo disteso.

Educarli a porsi in ascolto della propria voce interiore può però motivarli a prendersi una pausa non solo dai social, e dalle future seduzioni virtuali del Metaverso, ma pure dai mille impegni che assediano le loro giornate. La frenesia dei tempi moderni non intacca più soltanto la quotidianità di noi adulti. Si estende, purtroppo, come una immensa nube tossica anche nei territori dell’infanzia e dell’adolescenza.

Pennac racconta che, negli anni d’insegnamento, invitava spesso, nel pomeriggio, i suoi allievi, a un «esercizio di noia, venti minuti a non far niente». Soltanto dopo questa lunga, meravigliosa parentesi dedicata letteralmente a fissare il vuoto, avrebbero dovuto iniziare a fare i compiti (Diario di scuola, p. 135). Credo varrebbe la pena accogliere questo suo suggerimento. Proporne una versione opportunamente aggiornata ai nostri nativi digitali, capace di allettarli e coinvolgerli.

Le emozioni in classe: una nuova legge. All’inizio di quest’anno è stata approvata, all’unanimità, la Legge 2782/2022, che disciplina la «Disposizione in materia di insegnamento sperimentale dell’educazione all’intelligenza emotiva nelle scuole di ogni ordine e grado». Dopo anni di sperimentazioni non ufficiali, e buone pratiche affidate dalla solerzia dei singoli, le competenze non cognitive o life skill entrano così, finalmente, di diritto, nei programmi scolastici.

Non poteva essere altrimenti. Come annota con solerzia il legislatore, lavorare in classe su emozioni e sentimenti serve a:

– promuovere il successo formativo;

– prevenire la povertà educativa;

– contrastare la dispersione scolastica.

 

Le emozioni nella vita: come prendersi cura di sé e degli altri. Di certo, le life skill non servono soltanto tra i banchi, ma nella vita di ogni giorno. Competenze e abilità, quali l’affidabilità, la propositività, la visione d’insieme, la perseveranza, e tutti quei comportamenti virtuosi, come la pazienza o la disponibilità al lavoro di gruppo si rivelano assai utili per affrontare le sfide di un mondo complesso.

Marco Cattaneo, accademico, direttore del mensile «Le Scienze», ci ricorda che: «Le emozioni sono l’ingrediente più pervasivo della nostra quotidianità. E l’intelligenza emotiva è lo strumento che ci permette […] di leggere le emozioni […] di tessere relazioni, gestire conflitti, di dare e ricevere. Ci permette di conoscerci più a fondo e di valutare le reazioni di chi ci sta di fronte, che sia il compagno della nostra vita o un perfetto sconosciuto. In una parola, di vivere meglio.» (Atlante, pp. 13-14)

 L’empatia: mettersi nei panni dell’altro. Tra le competenze di vita più importanti vi è senza dubbio l’empatia, che assolve a uno scopo irrinunciabile per le comunità umane: quello di metterci “nei panni dell’altro”. Di fare in modo che possiamo riuscire a sentirne, riconoscere e condividere le emozioni, i sentimenti, i pensieri più segreti e ineffabili, il vissuto. Nella sua forma più matura, ci permette di «allargare il noi», come ha detto con un’espressione bellissima il maestro Franco Lorenzoni. E, dunque, di stabilire rapporti di collaborazione e reciproco aiuto. Per la Wolf, «è una delle capacità più importanti che ci si dato apprendere nel campo della socialità, della affettività e [dulcis in fundo] del pensiero concettuale». (Proust e il calamaro, pp. 95-96).

Come attivare le emozioni. In classe, la ludodidattica si dimostra una scelta vincente anche nell’ambito dell’Educazione emotiva. Pochi attivatori delle emozioni sono potenti quanto un buon libro. Tuttavia, è possibile anche ricorrere ad altri “strumenti” fai da te e assemblati magari con materiali da riciclo.

Anche la più piccola delle pratiche didattiche di tipo emozionale, può avere ottime ricadute in campo educativo, giacché le finalità che possiamo perseguire non cambiano. I ragazzi devono imparare a prendersi cura di sé e degli altri e, dunque:

– acquisire un atteggiamento di consapevole rispetto nei confronti di quanto accade nel silenzio della loro interiorità;

– far lavorare assieme emozioni ed intelligenza;

– vivere il gruppo all’insegna della coesione, della condivisione e dell’inclusività.

Attivatori di emozioni in classe: gli appelli speciali. Io, ad esempio, insegno ormai da quasi tre decenni. Solo da poco più di un lustro, però, da quando cioè ho cominciato ad approfondire questi argomenti, inizio la giornata scolastica con un “appello speciale”. I ragazzi lo vivono come un gioco, ma a me consente di delineare, con minimi margini di errore, la mappa degli umori delle classi e a ottimizzare le attività giornaliere. Le regole sono semplici. Quando l’allievo sente pronunciare il proprio nome, oltre che segnalare la presenza, può dire quale emozione prova in quel momento. Ciascuno è libero di parteciparvi o meno. È un momento che amano molto. Anzi, per quanto possa sembrare paradossale, proprio quelli che sembrano non volervi aderire, sono i primi a non volervi rinunziare.

Le scatole dei pensieri. Funzionano però anche “Scatole dei pensieri”. Basta procurarsi un paio di scatole di scarpe e chiedere alla classe di abbellirle come meglio crede. Alla fine, una diventerà il contenitore dei Pensieri negativi, l’altra quella dei Pensieri positivi. Quando saranno pronte, chiunque lo desideri, potrà inserirvi dentro, in forma del tutto anonima, dei bigliettini in cui prova, con frasi il più possibile brevi, a raccontare ciò che accade nel segreto del proprio animo.

Periodicamente, le scatole si aprono. I ragazzi si dispongono in cerchio. Chi vuole, può iniziare a pescare e a leggere ad alta voce quei piccoli messaggi in bottiglia. Chi lo desidera può anche intervenire con un suo piccolo commento. Pensieri amari e allegri si confondono e miscelano, come rivoli d’acqua, lasciando affiorare una verità importante e potente. Ci dicono che non siamo soli e che non siamo perduti.  Ciascuno di noi, infatti, è connesso con gli altri, in una maniera più profonda di quanto non immagini. E può riconoscersi nel suo stesso dolore o nella sua stessa felicità.

Barattoli e ripostigli. Col tempo, ho imparato anche ad utilizzare al meglio le straordinarie potenzialità degli albi illustrati. Qualsiasi sia la loro età, i ragazzi amano indugiare sulle immagini e prendere parte alla costruzione di senso a cui esse li invitano.

Di recente mi sono battuta in un albo molto bello: Un barattolo di emozioni, di Deborah Marcero.  La storia ruota attorno a Louis, un coniglietto oppresso da mille ansie, nevrosi e timori. Dinanzi allo tsunami che lo investe, decide di correre ai ripari. Lo farà, però, in un modo sbagliato. Si preoccuperà di sigillare, di volta in volta, le proprie emozioni dentro ad un barattolo e di nasconderle in un ripostiglio lontano dal suo sguardo. Ad un certo punto, però lo spazio finisce… A mano a mano che le immagini e il racconto si dipanano davanti ai nostri occhi, i ragazzi prendono coscienza di quanto sia pericoloso non dare ascolto alla propria dimensione emotiva.

Se un’app sostituisce il maestro (alert, solitudine e disorientamento). Desidero chiudere questa ricognizione sull’alfabetizzazione emotiva con una piccola riflessione. Sta facendo discutere il successo che riscuote un’app nata per (ri)educare ai sentimenti. È stata concepita come una sorta di terapia d’urto per gli innamorati, e si chiama Marriage Counseling. Il suo scopo quello di far sì che all’interno di una coppia, i partner distratti tornino a mostrare, tra loro, sollecitudine, interesse; forse, persino un po’ di tenerezza.

La notizia potrebbe essere derubricata come una semplice nota di folclore digitale. Ma sbaglieremmo. In un mondo complesso, fluido, onlife qual è il nostro, dovrebbe farci pensare il bisogno di ricorrere ad un alert, che ci segnali la presenza, al nostro fianco, di una persona che pure dovrebbe esserci cara.

La nostra è una società che soffre come non mai di solitudine e disorientamento.  Una società “malata” se è pur vero, come denunciano i medici, che dal tempo pandemico, assistiamo ormai ad un incremento crescente di casi di disagio mentale e di tentativi di suicidio tra gli adolescenti. La famiglia e la scuola non possono assolutamente abdicare al loro ruolo di agenzie educative. Piuttosto, hanno l’obbligo di tornare ad offrire ai ragazzi un punto d’appoggio sicuro, supportandoli nel cammino di crescita cognitiva ed emozionale che li attende.

Il rischio che si corre, è sotto i nostri occhi. Ed è quello che ci allontanino dalle loro vite e ci sostituiscano col suono sgradevole ed inutile di un semplice bit.

Piccola bibliografia di riferimento sull’educazione emotiva e l’apprendimento

Aristotele, Retorica, Mondadori, Milano, 2019

Chambers A., Siamo quello che leggiamo. Crescere tra lettura e letteratura, Equilibri. Modena, 2020 (20111)

Ferrara S., La grande invenzione. Storia del mondo in nove scritture misteriose, Feltrinelli, Torino, 2021 (20191)

Han B.C., Nello sciame. Visioni del digitale, Nottetempo, Milano, 2018 (20131)

Galimberti  U.., Vivarelli A..,  Che tempesta! 50 emozioni raccontate ai ragazzi, Feltrinelli 2021

Id..,  L’ospite inquietante, Feltrinelli ,2016

Id..,   Il libro delle emozioni, Feltrinelli ,2021

Goleman D..,   Intelligenza emotiva. Che cos’è e perché può renderci felici, Rizzoli 1996

Marcero D., Un barattolo di emozioni, Terre di Mezzo, 2022

Pennac D.,. .  Diario di scuola, Feltrinelli, 2013

Pontiggia G., I classici in prima persona, Mondadori, Milano, 2006

Rossi S., Carezze d’ empatia in classe.50 idee per crescere insieme, Pearson, Milano- Torino, 2020

Watt Smitt, Atlante delle emozioni, 156 emozioni che hai provato, che non sai di aver provato, che non proverai mai, GEDI, Roma, 2018 (20151)

Wolf Maryanne, Lettore, vieni a casa. Il cervello che legge in un mondo digitale, Vita e Pensiero, Milano, 2018.

Ead., Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge, Vita e Pensiero, Milano, 2012 (20071)

Per saperne di più: etimo e parole

Emozione viene dal latino emovĕre, verbo che vuol dire: portare (movĕre) fuori (ex), mettere in movimento, scuotere, smuovere. Nell’accezione moderna, il vocabolo è stato coniato per la prima volta nel 1830, dal medico e filosofo Thomas Brown. Prima di allora, si ricorreva ad altri termini: passioni, accidenti, sentimenti morali.

Sentimento deriva dal latino sentire, verbo che vuol dire: percepire attraverso i sensi.

Empatia proviene, invece,  dal greco antico empátheia, e vuol dire “sentire o soffrire (pathos) dentro (in). Il vocabolo è stato coniato, sul finire dell’’800, da  uno studioso che risponde al nome di Robert Vischer. In origine, nel mondo greco, veniva utilizzato per indicare l’intimo rapporto emotivo che legava l’aedo, cioè il poeta-cantore, al suo pubblico.

 Maestro l’etimo apre ad un racconto dentro il racconto. Affonda, infatti, le sue radici nelle parole latine magis e ter. Indica, dunque, colei o colui che sa, o dovrebbe sapere,  tre volte di più dei propri allievi.

Scuola viene dal greco skholè, il cui significato originario è tempo libero, che si può impiegare per prendersi cura di sé stessi, e dunque svagarsi, o apprendere. Ad esso, si oppone il tempo degli impegni e del lavoro

FONTE: FOCUS